Claudio Guccione, Maria Ferrante, Ivo Allegro
Con il parere n. 823/2020, adottato nell’adunanza del 22 aprile 2020, il Consiglio di Stato si è espresso sullo schema di contratto standard per l’affidamento della progettazione, costruzione e gestione di opere pubbliche a diretto utilizzo della pubblica amministrazione da realizzarsi in partenariato pubblico privato.
Nello specifico, il Consiglio di Stato, dopo un approfondimento sulla natura giuridica del contratto standard (per il commento del quale si rinvia all’articolo di Mauro Salerno “Ppp, il Consiglio di Stato boccia il contratto standard del Mef: è competenza Anac (ma va coinvolto anche il Mit)”, pubblicato su Edilizia e Territorio del 30 aprile ) e sulle diverse tipologie di contratti di Ppp, si concentra sugli specifici profili e quesiti individuati dal Ministero nella propria richiesta di parere:
– esecuzione dei lavori e gestione dei sevizi da parte dei soggetti terzi (artt. 15-23 dello schema di contratto standard);
– modifiche al contratto (artt. 19-32 dello schema di contratto standard);
– esclusione della configurazione del contributo pubblico come una condizione necessaria per raggiungere l’equilibrio economico finanziario nelle “opere fredde” da realizzarsi in Ppp;
– distribuzione degli obblighi e dei rischi relativi all’acquisizione ed alla perdurante validità delle autorizzazioni, con particolare riferimento agli effetti sulla bancabilità delle operazioni;
– passaggio dell’opera al concedente al temine del contratto senza il pagamento di un valore residuo;
– disciplina del pagamento dell’eventuale contributo pubblico riconosciuto a titolo di prezzo e del canone di disponibilità in relazione alla procedura di infrazione comunitaria n. 2017/2090 riguardante i ritardi nei pagamenti;
– profili di discordanza dello schema di contratto rispetto alle Linee Guida Anac n. 9/2018.
Le riflessioni del Consiglio di Stato sui singoli profili trattati, dunque, forniscono l’occasione per valutare più approfonditamente i predetti contenuti dello schema di contratto, che effettivamente costituiscono temi di particolare importanza per la bancabilità e fattibilità delle operazioni di Ppp.
La standardizzazione dei contratti di Ppp
In primo luogo, appare necessaria una riflessione generale sull’opportunità ed utilità di redigere un contratto standard per le operazioni di Ppp.
Il Ministero, nella propria richiesta di parere al Consiglio di Stato, motiva tale scelta con la necessità di fornire alle amministrazioni un ausilio nella strutturazione dei contratti al fine di garantire la corretta allocazione dei rischi per la qualificabilità dei contratti come Ppp e specifica che ciò sarebbe conforme alle indicazioni fornite da Eurostat al Governo italiano nell’ultimo quinquennio.
Sotto tale profilo, il Consiglio di Stato ha ribadito nel suo parere, in costanza con i suoi procedenti pronunciamenti, come «il partenariato pubblico-privato, piuttosto che configurare un tipo contrattuale autonomo, può essere qualificato come un modulo procedimentale comprensivo di fattispecie distinte, ciascuna delle quali condivide la comune preordinazione alla
gestione imprenditoriale di un’operazione economicamente complessa». Il Ppp, dunque, resta per i giudici di Palazzo Spada, «un archetipo generale … di cui sono concreta declinazione la finanza di progetto, la locazione finanziaria di opere pubbliche, la concessione di costruzione e gestione, il contratto di disponibilità» e si ribadisce come lo stesso art. 180 «introduce così una disciplina quadro valevole, oltre che per le figure tipizzate, anche per figure atipiche, definite, nel comma 8 come “qualunque altra procedura di realizzazione di partenariato in materia di opere o servizi che presentino le caratteristiche” descritte nell’art. 180».
In questo quadro, si comprende come il Codice “introduce così una disciplina quadro valevole, oltre che per le figure tipizzate, anche per figure atipiche, definite, nel comma 8 come
“qualunque altra procedura di realizzazione di partenariato in materia di opere o servizi che presentino le caratteristiche” descritte nell’art. 180″ non esistendo quindi in termini
propriamente detti il “contratto di Ppp” ma una serie di fattispecie, anche atipiche, che di volta in volta possono essere individuate per far fronte alle esigenze di maggiore efficienza ed
efficacia della PA, coerentemente al dettato costituzionale dell’art. 97.
Da ciò derivano due considerazioni. La prima connessa alla necessità di avere o meno uno schema contrattuale tipo di carattere universale a fronte di un archetipo generale che va di volta
in volta declinato sia sulle specifiche fattispecie individuate dal Codice che anche su fattispecie innovative non codificate ma che trovano disciplina giuridica nel relativo specifico contratto avente natura atipica “in cui le parti fissano nel modo ritenuto più idoneo e adeguato l’assetto dei propri rispettivi interessi in funzione del conseguimento dell’interesse pubblico individuato esclusivamente dalla parte pubblica”.
In buona sostanza è lecito chiedersi se il rilevante sforzo compiuto dal Mef e dal gruppo di lavoro da questo mobilitato per mettere a punto un “contratto tipo di Ppp” abbia un’utilità
effettivamente chiarificatrice. Ciò a fronte di uno schema normativo come quello del Ppp che ha “lo scopo di individuare finanziamenti alternativi a quelli tradizionali attraverso un rapporto di lunga durata e una corretta allocazione del rischio in capo ai privati, secondo le modalità individuate nel contratto” anche al fine di “promuovere un significativo rinnovamento della pubblica amministrazione attraverso l’acquisizione di specifiche conoscenze tecniche e scientifiche, proprie delle realtà private, capaci di fornire nuovi e innovativi strumenti per
rendere l’azione amministrativa” più performante ed in grado di cogliere le mutevoli sfide di innovazione tecnologica e dei modelli di azione che la nostra epoca evidenzia.
La seconda è connessa alla libertà che, ancora una volta, il Consiglio di Stato attribuisce in capo alle parti nell’individuare, attraverso uno schema di contratto ad hoc che si ispiri ai principi dell’art. 180, un equilibrio che consenta sia al pubblico che al privato di ottimizzare i propri interessi, che si declinano, nel caso del pubblico, nella massimizzazione del benessere sociale rispetto a specifici interessi pubblici da tutelare e garantire e, per il privato, che mette “a disposizione dell’amministrazione pubblica, le proprie capacità finanziarie e il proprio complessivo know how”, nella possibilità di ritrarre utilità, mediante la disponibilità o lo sfruttamento economico dell’opera secondo un meccanismo risk & rewards proprio anche della Sec 2010 e della disciplina Eurostat.
In questa prospettiva, probabilmente più che un contratto tipo standard che dovrebbe andare a regolare fattispecie anche atipiche incasellando una vasta ed eterogenea gamma di interventi,sia per tipologie che per dimensioni, potrebbe essere più utile agli interessi nazionali fornire chiarimenti e metodologie per gestire le parti critiche del contratto o al massimo affrontare
specifici approfondimenti settoriali come avviene nella prassi dei servizi di assistenza tecnica al Pfi in Uk. Ciò ancor di più se alla famiglia, anche in divenire, dei contratti di Ppp si vuole affidare un ruolo di promozione dell’innovazione e del rinnovamento della Pa, come chiaramente traspare anche dal parere del Consiglio di Stato, al fine di elevarne drasticamente performance e produttività dei servizi. Il vero big issue del paese ben prima del Covid 19.
Gli affidamenti a terzi dei concessionari
Per quanto riguarda il regime dei lavori e la gestione dei servizi da affidarsi da parte del concessionario, il Ministero pone due quesiti, il primo riguarda la qualificazione dei soggetti terzi come appaltatori o subappaltatori del concessionario ed il secondo concerne le modalità di affidamento dei lavori agli appaltatori, attraverso procedure selettive concorsuali o mediante procedure semplificate.
I dubbi del Ministero deriverebbero da una non chiara formulazione delle disposizioni del Codice, tra cui, da un lato, l’art 1. Comma 2 lettera c) , secondo il quale le disposizioni del codice si applicano ai lavori pubblici affidati dai concessionari che non sono amministrazioni aggiudicatrici e l’art 164 , comma 5, che prevede che i concessionari che non sono amministrazioni aggiudicatrici, per gli appalti di lavori da affidare a terzi sono tenuti all’applicazione di alcune – quindi non di tutte – disposizioni del codice e, dall’altro, l’art 174, c. 2 che prevede la possibilità per i concessionari di indicare in sede di offerta le parti del contratto che intendono subaffidare a terzi. Incidentalmente si evidenzia che il subappalto delle concessioni non incontra limiti quantitativi, in quanto della disciplina del subappalto non viene richiamato l’art 105, comma 2 che tale limite prevede.
In sostanza, procedure di gara per individuare gli appaltatori o libera scelta dei subappaltatori?
Ed ancora, proprio perché l’art 164, comma 5 non prevede la integrale applicazione del codice come invece dispone l’art 1, comma 2, lettera c), il dubbio è per l’appunto se gli appaltatori
debbano essere selezionati mediante procedure semplificate o attraverso procedure selettive concorsuali.
Il Consiglio di Stato focalizza due tipi di concessioni. Le prime sono quelle già in essere affidate senza gara, per le quali prescrive l’obbligo di gara “a valle” per la scelta degli appaltatori, in linea con l’art 1, comma 2, lettera c) e con l’art 177 , che prescrive regole concorrenziali per la scelta degli appaltatori , in una certa misura, quando “a monte” sono mancate le gare e concessioni e riferisce tale fattispecie ai concessionari che sono amministrazioni aggiudicatrici e che quindi ex art 164, comma 4, devono rispettare integralmente il codice per l’affidamento di appalti di lavori pubblici.
Le seconde sono le concessioni pervenute alla scelta mediante gara dei concessionari, quindi non considerabili come amministrazioni aggiudicatrici e che quindi, in possesso della
qualificazione per lavori e servizi, potranno ricorrere al subappalto, più che all’appalto e che comunque in caso di appalto dovranno rispettare alcune parti del Codice e non l’intero Codice ex art 164, comma 5.
Torna quindi di estrema attualità il tema della disciplina della qualificazione del concessionario, nel Codice obiettivamente incerta, poiché i requisiti tecnici e funzionali dei lavori da eseguire e dei servizi da fornire “sono definiti nei documenti di gara” (art 170, c. 1) e le condizioni di partecipazione “sono correlate e proporzionali alla necessità di garantire la capacità del concessionario di eseguire la concessione” (art 172, c 1); incertezza che dovrebbe essere risolta dall’emanando Regolamento generale.Una prima osservazione è all’impostazione del Codice, che ha mostrato di volersi discostare dalla direttiva 23/2014/UE nel prescrivere comunque, in relazione ai lavori, un confronto concorrenziale per la scelta degli appaltatori anche quando il concessionario sia stato scelto mediante gara, nell’ipotesi del Consiglio di Stato al comma 5 dell’art 164. La direttiva, diversamente, non prevede alcuna disposizione per il regime degli appalti di lavori, servizi e forniture “a valle” di una concessione affidata “a monte” con gara, in coerenza con il rischio operativo gravante sul concessionario.
Nel merito delle riflessioni del Consiglio di Stato risulta chiaro che l’ago della bilancia per determinare se un concessionario possa qualificarsi o meno amministrazione aggiudicatrice consista nell’essere la sua scelta preceduta o meno da procedura di evidenza pubblica, cosicché non sarebbero configurabili concessionari amministrazioni aggiudicatrici se scelti con gara, né,
in assenza di gara, sarebbero configurabili concessionari non amministrazioni aggiudicatrici.
Ora, pur non volendo in questa sede affrontare un dibattito troppo complesso, deve evidenziarsi che in talune pronunce la giurisprudenza amministrativa non pare essersi focalizzata, per escludere la qualificazione di amministrazione aggiudicatrice del concessionario, sulla sua individuazione in assenza di procedura di evidenza pubblica , bensì, pur in assenza di gara, è pervenuta a qualificare un concessionario come “non organismo di diritto pubblico” in base al suo agire sul mercato con logiche imprenditoriali sopportando il rischio di impresa, difettando quindi il “carattere non industriale e commerciale” delle esigenze di interesse generale perseguite (Cons. Stato n. 3345/2016 e 3446/2017 su Autostrada del Brennero Spa).
Ulteriore osservazione riguarda poi il contenuto dell’art 23 del contratto standard, il cui comma 4 dispone che il concessionario procede all’affidamento a terzi dei servizi non eseguiti direttamente dai soci o in subappalto mediante procedura di evidenza pubblica ai sensi del Codice. Ora, poiché, come si è visto, “a valle” di una concessione affidata con gara il Codice, già andando oltre rispetto alla Direttiva n. 23, prevede l’obbligo di procedure di confronto concorrenziale semplificate (ex art 164, comma 5) solo per i lavori, non si comprende perché il Ministero abbia previsto tale disposizione e comunque non abbia voluto sottoporla alla attenzione del Consiglio di Stato.
L’allocazione dei rischi relativa al conseguimento delle autorizzazioni amministrative
Sulla ripartizione dei rischi relativi al conseguimento dei titoli autorizzatori, il contratto standard prevede che vi sia una ripartizione di competenze tra concedente e concessionario (art. 9), con necessità di elencare nel dettaglio le singole autorizzazioni necessarie. Nello specifico, la previsione contrattuale contiene:
a) l’elenco dettagliato delle autorizzazioni di competenza del concedente, distinte tra quelle che devono essere dal medesimo rilasciate e quelle che, invece, devono essere dallo stesso ottenute;
b) l’elenco dettagliato delle autorizzazioni di competenza del concessionario;
c) la previsione per cui i maggiori oneri, in termini di tempi e costi, derivanti dal mancato o ritardato ottenimento delle autorizzazioni di competenza del concessionario rimangono a carico
del medesimo, salvo che egli non dimostri l’imputabilità a fatto del concedente e di aver, comunque, attivato in maniera diligente e tempestiva ogni mezzo ed azione ai fini del conseguimento di quanto richiesto;
d) l’applicabilità, in caso di aggravio a carico del concessionario, di ulteriori penali;
e) con riguardo alle autorizzazioni di competenza del concedente rilasciate da altre amministrazioni ed a quelle di competenza del concessionario, la previsione che, ove il mancato
o ritardato ottenimento sia imputabile a fatto di terzi e la parte si sia attivata in maniera diligente e tempestiva, nulla è dovuto tra le parti;
f) la previsione per cui è comunque onere del concessionario mantenere valide ed efficaci tutte le autorizzazioni acquisite.
Per l’effettiva individuazione dell’allocazione del rischio amministrativo, poi, tale clausola contrattuale deve essere letta in combinato disposto con l’art. 34 dello schema di contratto, ai sensi del quale costituisce alterazione dell’equilibrio economico-finanziario, che dà luogo al riequilibrio, il mancato o ritardato rilascio delle autorizzazioni di competenza del concedente
riconducibile al medesimo. Nulla si dice, invece, sul diritto al riequilibrio ove vi sia responsabilità del concedente per il mancato o ritardato rilascio di autorizzazioni di competenza del concessionario, per cui sul punto appare evidente il mancato coordinamento tra le due diposizioni contrattuali.
Rispetto a tale profilo il Consiglio di Stato, dopo aver affermato che il tema non influenza il trattamento statistico ma potrebbe avere un’incidenza negativa sulla bancabilità dei progetti, conclude per l’impossibilità di esprimersi alla luce dell’assenza di specificazione delle singole autorizzazioni che sarebbero di competenza dell’una o dell’altra parte. In generale, tuttavia,
specifica che il riparto di competenze debba essere calibrato, per un verso, con riferimento all’oggetto della concessione e, per altro, verso alla necessità di evitare “fughe di responsabilità” sulla base di asserite mancanze (in realtà non) imputabili alla controparte. I giudizi di Palazzo Spada, inoltre, evidenziano l’assoluta importanza di tale tema, ricordando anche l’art. 1, co. 1, punto ttt), che ha imposto di garantire «altresì l’acquisizione di tutte le necessarie autorizzazioni, pareri e atti di assenso comunque denominati entro la fase di aggiudicazione»: sul punto, appare evidente che tale previsione non possa trovare applicazione nel caso di specie, visto che molte autorizzazioni possono intervenire in fase di progettazione avanzata, costruzione o addirittura gestione, e quindi in un momento successivo alla stipula del contratto di Ppp; nondimeno, il riferimento alla legge delega è calzante ai fini di sottolineare quanto l’aspetto autorizzativo rivesta un’importanza fondamentale ai fini della realizzazione delle opere.
È indubbio, infatti, che il profilo del rischio amministrativo sia molto importante per la bancabilità delle operazioni, anche alla luce dei notori ritardi dei processi autorizzativi spesso riscontrati in concreto che incidono pesantemente sui tempi di realizzazione delle opere, spaventando così i potenziali investitori. Non appare, invece, del tutto rispondente alla realtà
che il tema sia totalmente indifferente rispetto al trattamento statistico.
In primo luogo, infatti, risulterebbe contrario ai principi Eurostat di ripartizione dei rischi l’allocazione sul concedente del rischio di ritardo o mancato ottenimento dei titoli autorizzativi per responsabilità del concessionario: difatti, sotto tale profilo, il contratto standard correttamente attribuisce al concessionario gli eventuali maggiori oneri. Più difficile da condividere, in questa ipotesi, è l’applicazione di una specifica penale: ai sensi dell’art. 22, co. 4, del contratto standard, infatti, è prevista una penale «per ogni giorno di ritardo nell’adempimento da parte del Concessionario delle obbligazioni di cui all’articolo 9, coma 2»; tale previsione, invero, oltre che ingiusta, appare di difficile applicazione.
Sotto il primo profilo, sembra che la medesima violazione sia sanzionata più volte: il concessionario, infatti, oltre a dover sostenere i maggiori oneri, dovrebbe pagare una penale specifica per il mancato o ritardato conseguimento delle autorizzazioni in aggiunta alle altre penali per il ritardo nella realizzazione dei lavori o nell’avvio della gestione dovuto all’assenza dei titoli autorizzativi.
Tale duplicazione di sanzioni risulta evidentemente ingiusta alla luce dei principi generali del diritto. Inoltre, non si può non evidenziare la difficile applicabilità in concreto della clausola in parola: per comminare la penale, infatti, dovrebbe essere sempre individuato un termine per la richiesta delle autorizzazioni, ma così non è. L’eventuale ritardo, infatti, nella maggior parte dei casi, non assume rilievo di per sé, ma solo nel momento in cui si riverbera in un ritardo nell’esecuzione dei lavori o nell’avvio della gestione, per cui non è valutabile in via autonoma.Sempre con riguardo al mancato o ritardato ottenimento delle autorizzazioni di competenza del concessionario, come accennato, il contratto standard appare lacunoso rispetto all’ipotesi in cui il mancato ottenimento derivi da fatto del concedente: mentre, infatti, l’art. 9 in commento prevede tale circostanza come eccezione alla regola generale per cui i maggiori oneri gravano sul concessionario, l’art. 34 non ne fa alcuna menzione tra le cause di riequilibrio del piano economico-finanziario. Tale carenza rende in concreto inattuabile l’allocazione del rischio sulla parte pubblica: infatti, in assenza di una specifica indicazione nella relativa clausola contrattuale, forza del principio di tassatività delle cause di revisione del contratto, non sembra possibile una compensazione del concessionario tramite riequilibrio del Pef.
Infine, desta qualche perplessità l’allocazione sul concessionario del rischio di mancato o tardivo conseguimento delle autorizzazioni per responsabilità di soggetti terzi. Tale previsione, infatti, non appare pienamente coerente con i criteri Eurostat: a tal proposito, il paragrafo 6.1.1. della Guida Epec al trattamento statistico dei contratti di Ppp espressamente inserisce i ritardi di soggetti terzi su approvazioni e rilascio di autorizzazioni tra gli eventi di compensazione a favore del concessionario, dai quali dovrebbe derivare la revisione del cronoprogramma ed il riequilibrio i fini del ristoro economico.
Il contributo pubblico
Il parere emesso, in via ulteriore, chiarisce alcuni aspetti spesso dibattuti in letteratura. In primo luogo di come nell’ambito delle “opere fredde” in cui, cioè la totalità o la prevalenza degli introiti gestionali per il privato provengono dalla stessa amministrazione pubblica, “la disciplina del contributo pubblico, e delle relative condizioni economiche, non può essere equiparata nelle due differenti tipologie di opere” calde e fredde. Nello specifico il Consiglio di Stato mette in risalto, richiamando Eurostat, come il contributo può avere un ruolo significativo nella configurazione dell’effettivo rischio operativo di un’operazione di Ppp.
In questa prospettiva, anche alla luce delle posizioni già assunte dall’Anac nelle Linee guida n. 9 sul tema e in connessione a quello del rendimento dell’operazione di Ppp (sulle quali ci siamo già soffermati nel passato: cfr. Edilizia e Territorio del 4 giugno 2018) , appare necessario un chiarimento urgente di ordine tecnico. Ciò considerando che, se per un verso, l’entità del contributo, comunque nei limiti non maggioritari sull’entità dell’investimento della disciplina Eurostat e della, in parte, più restrittiva norma nazionale, potrebbe avere in astratto (ma probabilmente non nel concreto ) un ruolo nel limitare il rischio dell’operatore privato, per altro verso, questo riveste una funzione fondamentale per l’effettiva sostenibilità finanziaria
dell’operazione per la Pa, anche alla luce dei crescenti vincoli sulla spesa corrente su cui ricade il canone di disponibilità connesso al rischio di performance tipico del Ppp. Su questo, sarebbe auspicabile attivare ragionamenti non ideologici ma basati su casistica e effettivo funzionamento dei Piani economico finanziari e dei sistemi di risk management inseriti nelle
Caratteristiche del servizio e della gestione/Capitolati di gestione (spesso documenti negletti) considerando l’effettiva esposizione al rischio operativo dell’operatore privato.
Il riequilibrio dei contratti
Infine, il CdS in merito alla questione del riequilibrio, altro aspetto complesso e di estrema delicatezza in tutti i contratti riconducibili all’archetipo del Ppp, enuncia il principio generale che in relazione a tale aspetto “sia sommamente opportuno fare esclusivamente un rinvio alle disposizioni di legge, onde evitare che il sovrapporsi delle regole possa generare contenzioso”.
Tale suggerimento trae spunto dall’analisi svolta dal Consiglio di Stato sulle indicazioni fornite nel “contratto standard” che non sempre appaiono perfettamente lineari e coerenti con il dettato normativo ma si espone ad alcune ulteriori considerazioni. In primo luogo, è sicuramente lodevole il tentativo dello standard di tipizzare alcune degli eventi di disequilibrio ma, probabilmente, è rischiosa l’indicazione puntuale di alcuni termini specifici come, ad esempio, quelli per cui una sospensione può dare vita ad una lesione dell’equilibrio (i termini di 180 giornie 90 giorni possono essere eccessivi o limitanti in relazione alle diverse tipologie di infrastrutture oggetto di Ppp e alle diverse tecnologie utilizzate per la realizzazione).
In via generale, potrebbe essere opportuno non dare delle indicazioni puntuali ma solo alcuni parametri di ragionamento lasciando alla contrattazione delle parti l’individuazione dei parametri più corretti. Ciò al fine di evitare anche i classici fenomeni di ancoraggio su cui si basa il fenomeno della “burocrazia difensiva”. In secondo luogo, non convince appieno l’introduzione di fatto di una procedura arbitrale irrituale del Tavolo tecnico per la risoluzione delle controversie sul riequilibrio. Difatti, tale procedura, sicuramente appropriata nel caso di opere rilevanti come ad esempio gli ospedali (che sembrano essere stati assunti come archetipo di riferimento nella stesura del “contratto tipo”), mal si presta all’uso nei casi degli interventi di importanza minore. In buona sostanza, se effettivamente il Ppp deve costituire un importante strumento di innovazione della Pa, così come anche suggerito dal Consiglio di Stato, la sua eccessiva ingessatura, come detto, potrebbe essere controproducente.
Il rapporto con le linee guida Anac sul monitoraggio dei contratti di Ppp
Un ulteriore aspetto evidenziato dal Consiglio di Stato è relativo alla necessità di risolvere i disallineamenti che il “contratto tipo” ha rispetto alla disciplina delineata nelle Linee guida n. 9 dell’Anac in merito sia alla declinazione operativa di alcune modalità di assunzione dei rischi che rispetto al monitoraggio di tali rischi. Analogamente i giudici di Palazzo Spada
raccomandano di rendere lo schema “coerente con il quadro normativo eurounitario e nazionale sia da un punto di vista giuridico sia sotto il profilo contabile-finanziario”. In questa prospettiva appare assolutamente condivisibile il rimando che il Consiglio di Stato fa alla necessità di un più ampio coordinamento e di una leale collaborazione prima della pubblicazione definitiva dello schema non solo con Anac ma anche con la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero delle Infrastrutture e dei trasporti e, in via più generale, la riflessione sulla opportunità di sospendere la pubblicazione ufficiale dello “schema tipo” sino all’adozione del Regolamento, onde evitare che discipline contrastanti ingenerino confusione piuttosto che semplificazione in una materia che, per la sua natura complessa di punto di congiunzione tra aspetti normativi, tecnici, economico-finanziari, gestionali e di risk management, già di per se è foriera di non poche complicazioni amministrative e procedurali.
Conclusioni
In conclusione appare opportuno osservarsi che il certosino sforzo di chiarire in un “contratto standard” alcuni aspetti complessi e delicati che fanno parte del più generale equilibrio di
un’operazione di Ppp in realtà mal si prestano ad essere standardizzati. In tal senso, giova forse ricordare un principio enunciato da un grande studioso delle burocrazie come Alvin Gouldner
che ha evidenziato come la fissazione di standard in una organizzazione burocratica inneschi il fenomeno della “conservazione dell’apatia” secondo cui il livello minimo stabilito dalla norma
non è il “risultato minimo” ma il livello massimo raggiungibile e l’eventuale successiva normazione sulla norma non modifica la situazione ma attiva solo un circolo vizioso di standard
minimi.
Se effettivamente, come evidenzia il Consiglio di Stato, “tale modulo organizzatorio – in particolar modo nell’attuale periodo di grave crisi economica e finanziaria del Paese – se ben
utilizzato può costituire un volano per la ripresa economica, soprattutto se assistito da un costante dialogo tra Stato, Regioni e enti locali” è allora forse la metodologia utilizzata a non
essere quella più adeguata. Difatti, probabilmente, uno standard unico, forse troppo sbilanciato sulle metodologie che sulla prassi professionale, messo a punto per le opere materiali complesse di grandi dimensioni (mentre oggi il mercato sta lavorando molto su infrastrutture di dimensione più contenuta e sulle infrastrutture immateriali alla base delle “concessioni di
servizi”), rischia di essere controproducente o fuorviante, mentre più utile potrebbe essere la predisposizione di numerosi standard per tipologia e classi dimensionali di intervento ma,soprattutto, di metodologie operative a cui le singole amministrazioni (ma anche i privati) possono ispirarsi per risolvere i numerosi punti di snodo attraverso cui si rende effettivamente
equilibrata e win-win un’operazione di Ppp.